“Cchiù saglie ‘stu treno e cchiù t’odio”

1610930_10153428090211019_5966298878705258303_n “Cchiù saglie ‘stu treno e cchiù t’odio”.

È la prima frase che le ho sentito dire.

Gli occhi chiari inondati dalle lacrime, la voce soffocata ma non realmente piena d’odio.

Solo tristezza, una tristezza così profonda da somigliare alla disperazione.

Lo scompartimento dell’Intercity respirava solo dalla bocca del finestrino, affacciato su un binario transennato di Piazza Garibaldi. Un binario ferito, ho pensato. È così che sta un binario prima di diventare un binario morto. Se esiste una metafora, è che alle situazioni uno può mettere mano prima che diventino senza via d’uscita. Chissà se poi anche questa può diventare una trappola, ho pensato.

Lo scompartimento dell’Intercity affacciato sul binario ferito, e dentro lo scompartimento noi due sole.

Quando ha riattaccato mi ha guardata.

Sono rimasta in silenzio, non sapevo che dire. Ha parlato lei.

“Scusami, potresti essere mia figlia e guarda che figura ci faccio”.

Una donna corpulenta, un bel viso.

Si è raccontata subito, a discapito del pudore che pensava o diceva di dover provare.

Al telefono era il marito, a cui lei rimproverava un’esistenza infelice, lontana dalla terra che ama.

“Sono a Reggio Emilia da ventisette anni ma mi devi credere, ancora non mi sono rassegnata, e ogni volta che vengo giù tornare è una sofferenza”.

Ha detto proprio così: una sofferenza.

Mi ha raccontato di essere stata costretta a trasferirsi appena sposata, che il marito non trovava lavoro e l’unica occasione di costruirsi una vita l’hanno trovata lontano.

Viene da un paesino dell’Alta Irpinia, mi ha ripetuto decine di volte il nome ma proprio non riesco a ricordarlo. Ne parlava con gli occhi lucidi, sorridenti.

“Sta a un’ora, un’ora e mezza da Avellino”.

Come le sue lacrime, un fiume pure le sue parole.

Il nostro Intercity proseguiva lento, tagliando le campagne tra il Lazio e l’Umbria, dalla bocca del finestrino respiravamo un paesaggio tagliato a metà, perfettamente diviso tra il verde del prato e l’azzurro del cielo.

“Io la terra mia l’amo, l’amo proprio. Mio marito mi dice sempre: «io non capisco come fai, io la mia terra la odio perché me ne sono dovuto andare, perché mi ha cacciato, perché là non potevo fare niente ma tu no, tu la ami lo stesso, ce la fai a perdonarla» ed è vero, io non ce la faccio lo stesso a rassegnarmi, a dimenticarmela”.

Ci ha provato a stare lontana, si è costruita una vita, una famiglia, ha un figlio di ventun’anni, ma a un certo punto non ce l’ha fatta più.

“Due anni fa ho detto basta, non resisto. Stavo male. Ero sempre triste, demotivata. Guarda come sono ingrassata! Ho fatto le valigie e me ne sono tornata a casa. La mia famiglia mi mancava ma ero felice. Mi ero pure trovata un lavoro. Poi mio marito un giorno mi ha detto che così non poteva funzionare. Che dovevo scegliere. O stare con la mia famiglia o stare giù, e se volevo stare giù ci dovevamo separare perché lui così stava male”.

Ha scelto la sua famiglia, il suo amore.

Un amore attento, accorto, sofferto, lo percepivo dalle telefonata apprensive che le faceva.

Ha fatto la sua scelta ma sta male, e quel senso di colpa probabilmente pesa su tutta la sua famiglia.

Era percepibile dalla pacatezza del tono di voce di lui al telefono, mentre lei gli diceva che lo odiava.

Dall’apprensione con cui si informava sulle tappe del viaggio, dai mille: “Che mi aspetti a fare per cena, arrivo alle undici” e le rassicurazioni di lui: “Tranquilla, ti aspetto. Ti vengo a prendere in stazione e poi ci mangiamo la mozzarella”.

Dalle telefonate al figlio, quel ventunenne che stava andando al lavoro e nonostante questo rispondeva sempre tranquillo alle telefonate costanti di una madre in un viaggio così sofferto.

I biglietti glieli aveva regalati lui.

Per il suo compleanno, le ha preso un biglietto d’andata e uno di ritorno per Napoli.

“Quando mi ha fatto vedere i biglietti non ci credevo”. Ancora le brillavano gli occhi come se qualcuno in quel momento le stesse mostrando due biglietti per un viaggio nel luogo che ama.

“Me li regalano spesso, per le feste, ma mi fanno sempre felice”.

Fino al momento del ritorno. Fino a quell’angoscia che mi ha raccontato, che le chiude la gola.

“Più sale il treno, più sale l’angoscia”.

E stavamo salendo. Passavamo Orvieto e guardavo incantata quei paesaggi da Mulino Bianco, da casette basse, prati e fiumi, prendendo un po’ in giro me stessa per l’ingenuità da ragazza di metropoli con cui mi stupivo che quei posti esistessero davvero, fuori dalle pubblicità.

L’ho provata quella sensazione, mentre me ne parlava.

Ho sentito nettamente la gola chiudersi al pensiero che se pure sei stata felice, era una cosa a termine. Che dovevi staccarti da qualcosa che amavi così tanto e che ti pareva così tuo, da essere naturalmente parte di te.

Innaturale. Ecco cosa ho pensato. Staccarti dal posto che ami, dalla terra che ti ha generato, se non lo fai per scelta è innaturale. Contro natura.

Avrei voluto dirle tanto, ma la gola si stringeva pure a me. Guardavo i miei amati tetti di Firenze e pregustavo un arrivo sicuramente più felice del suo: avrei voluto consolarla, ma non avevo parole. E comprendevo la sua sofferenza, e non potevo certo dirle: “Hai ragione, starei pure io come te”. Avrei voluto impiegare quelle sei ore di viaggio insieme, noi due sole nello scompartimento dell’Intercity, per rimediare una lezione, una morale da questa storia.

Ma non c’è nessuna lezione, nessuna morale.

C’è che a volte la vita può essere ingiusta, e che puoi dover scegliere tra ciò che ami e chi ami.

E qualunque decisione tu prenda, starai sempre riparando un binario per non farlo morire senza sapere di essere a una biforcazione.

E che per quanti binari feriti tu possa guarire, lo farai sempre a discapito di altri binari, che lascerai morire.

Questa voce è stata pubblicata in blog, Racconti. Contrassegna il permalink.

5 risposte a “Cchiù saglie ‘stu treno e cchiù t’odio”

  1. esilii forzati che non sempre migliorano le qualità di vita.

    "Mi piace"

  2. Immacolata Martinucci ha detto:

    Questa storia mi ha commosso fino alle lacrime. E’ così alla fine qualunque scelta tu prenda un binario morto ci sarà sempre. Mi conforta pensare che se la vita ti mette queste scelte davanti è perché DEVE ANDARE COSI’………….

    "Mi piace"

  3. Fortuna Longobardi ha detto:

    E io ti apprezzo sempre di più Rita!! AUGURI!! ❤️

    Piace a 1 persona

  4. massimolegnani ha detto:

    Racconti l’episodio con accuratezza di scrittura e simpatiche note a margine (il binario ferito che riprendi poi in metafora). Credo che la “lezione” che cercavi di trarre dalla vicenda sia la vicenda stessa, cioè che tutto quello che ci accade intorno, gli incontri che facciamo, ci possono arricchire anche se non ci danno “lezioni”
    ml

    Piace a 1 persona

Lascia un commento