Maradona è il dio umano che i napoletani meritano. Non quello di cui hanno bisogno, ma proprio quello che meritano dall’alba dei tempi, e che per una volta, come per miracolo (non a caso parliamo di un dio) gli è stato concesso.
Viviamo in un mondo bacato, in cui si insegue un’idea di merito finta, vuota, che vorrebbe mettere sullo stesso piano tutti e tutte a prescindere da chi sono, cosa hanno nelle tasche e da quale cammino peregrino hanno attraversato. Un’idea fintamente parificatoria, racconta una promessa bugiarda per cui tutti e tutte potremo arrivare dove vorremo, e tutto dipenderà dal nostro impegno. Come partissimo dallo stesso zero, come se ognuno alle spalle avesse una tabula rasa che però non è mai esistita. Peccato che alle spalle nessuno ha il vuoto ma ognuno e ognuna di noi ha la storia, e la Storia, e spesso Storia e storia ballano una danza felice e fiera come l’ultima scena di ogni favola, quando si festeggiano matrimoni felici e contenti e nulla può più mancare, ma molto più spesso sono lotta, intemperie e tempeste, e la forza di uscirne bisogna inventarsela.
Diego è il nostro dio per questo. Perché dal nulla viene, per la parlata veloce e masticata così simile alla nostra, per la nostra stessa faccia, gli stessi occhi vispi e la stessa fierezza per niente nascosta di mostrare un talento straordinario. Per la capacità bambina di ostentare ma per gioco, per il modo in cui giocando si diverte.
Ma Diego è il nostro uomo, perché la mia città non lo vuole un dio perfetto che basta a se stesso e passa l’eternità a contemplare la sua perfezione. Il nostro è un dio che erra, che sbaglia e che è arrogante. Il nostro è un dio che non si contempla ma è consapevole di sé, di chi è e di cosa ha conquistato. È facile essere all’altezza di qualcosa che hai da sempre riconosciuto come tuo di diritto. Che non hai sudato, che non era un sogno irrealizzabile fino a poco fa. Essere dei immortali ha questo svantaggio: non sapremo mai quanto vali veramente perché sei sempre stato, non hai costruito il tuo cammino, non hai fatto la tua storia.
Un dio uomo viene dal nulla, calcia una palla in mezzo alla polvere e al fango, guarda lontano e stringe gli occhi per lanciare il proprio cuore insieme a quel pallone scommettendo su quanto lontano arriverà. E si stupisce, quando vince la scommessa. E incredulo realizza che insieme a quel pallone ha imparato a volare, anche se nessuno gli aveva detto che poteva farlo.
Qualcuno mi diceva oggi che Maradona è anche questo, un bambino per strada, ai quartieri, che gioca a pallone fino a sera. La trovo una bella immagine, ma non sufficiente.
Non è Diego il bambino che gioca fino a tarda notte, che ignora le urla da un balcone che lo reclamano a casa, che calcia forte, fino a far impazzire il quartiere intero e sbeffeggia chi gli rimprovera schiamazzi.
È Napoli a essere il popolo bambino, ed è così dalla notte dei tempi e forse sempre sarà così.
Proprio come un bambino, siamo un popolo a volte incomprensibile, che per questo può spaventare, perché in qualche modo distante ma non nel senso della superiorità, quanto in quello dell’imperscrutabilità. Un popolo e una città che non si possono raccontare a parole, anche per me, che delle parole ho sempre fatto i miei giocattoli prediletti e che di esse, proprio per questo, riconosco i limiti e la funzione limitante. Proprio per questo sono convinta e lo sono sempre stata che questa città sia tanto difficile da raccontare quanto facile da amare. Non ho mai conosciuto nessuno che, pieno di pregiudizi su Napoli, ne abbia visto almeno un pezzetto senza improvvisamente comprendere quell’amore disperato che caratterizza chiunque ne provenga.
È vero, a volte siamo fieri fino a innervosire. A volte siamo così attaccati alla nostra città e ai nostri simboli da risultare fastidiosi e per qualcuno stucchevoli. Perdonateci, è tutto ciò che abbiamo e che abbiamo sempre avuto. La nostra ineffabilità bambina che non sappiamo raccontare se non con parole che a qualcuno possono sembrare retoriche, addirittura patetiche, ma che non ci risparmiamo mai di mostrare e porgere a piene mani a chi ci ispiri fiducia. Con la stessa generosità muta e arzilla di un mito che palleggia, che balla, che canticchia e ti sorride innamorato.
Non è Diego il dio bambino, il popolo di Napoli è un popolo bambino, forse capriccioso e talvolta poco incline alla disciplina, ma puro, pulito. Un popolo ingenuo come un bambino che è facile deludere perché crede a tutte le promesse e si affida, ogni volta che può, a chiunque gli indichi la pur tenue possibilità di un sogno.
I bambini però possono essere indisciplinati, possono non aver a pieno assorbito gli imperativi della morale e della legge, senza per questo essere perduti. La cosa bella dell’essere un bambino è l’arco di possibilità che hai il privilegio perpetuo di ammirare, e fino a che è così, non puoi essere perduto mai.
E quando sei così, quando sei un popolo bambino di questa sorta, meriti pienamente un dio umano, e noi lo abbiamo avuto.
Questo non riguarda solo Napoli e i napoletani e le napoletane.
Non è un fatto geografico proprio perché è un fatto di privazione. Perché esiste un popolo più grande, di cui siamo un pezzetto, che nasce per difetto, per sottrazione, che si è formato per la condanna di essere sempre da meno in qualcosa, sempre da meno per qualcuno, e che però ne dovrebbe e ne vuole fare motivo di vanto. Mi sento forte, mi sento invincibile, perché alle spalle ho davvero l’abisso e io sono qui, a guardarti con sfida, con la forza dell’abisso alle mie spalle.
Non mi stupisce il gioco al massacro e la ricerca disperata della pecca umana che in qualche modo dovrebbe mettere in mora la grandezza di un mito. Parliamo un’altra lingua, nella nostra esistono certi concetti che non possiamo tradurre nelle vostre parole. Nella nostra non esistono certe vostre parole, certi vostri “ma” che oggi vi fanno cianciare a vuoto sulla storia di vita di un uomo straordinario e che ogni volta vi fanno accettare serenamente di mettere la testa sul cuscino quando ai ragazzini si spara alle spalle di notte. Non abbiamo e non vogliamo avere i vostri “ma” distintivi, che vi fanno da gradino per arrivare a un piedistallo di cui a noi non è mai importato, sul quale i nostri dei non vogliono salire.
Per fortuna ogni dio è al di sopra di queste cazzate, e detesta i piedistalli e aborre chi ci sale. Me lo sono sempre immaginato così, dio. Se esiste, viene dal nulla, sta in basso in mezzo ai ragazzini. Se esiste, è un dio umano, e regala sogni a chi non può permettersene.
E allora ben vengano non solo lo stadio, ma anche strade, piazze, vicoli e monumenti. Dalla mia città mi aspetto che celebri questo lutto come il più grande, mi aspetto che nascano squadre di calcio popolari intitolate a Diego Armando Maradona. Mi aspetto che la valanga di figli di questo lockdown abbiano tutti il nome Diego, ancora una volta.
Un dio non lo si omaggia e basta, a un dio ci si vota e la mia città farà voto a Maradona per la sua grandezza, perché era uno di noi, per il virtuosismo del tocco magico, per le parole aspre, forse maleducate e però puntuali, per il talento che per fortuna non viene dal lignaggio e proprio per questo, per capriccio della sorte, può essere riscatto. Perché il fato beffardo può talvolta essere benigno, per le chance, la fierezza, per il sogno collettivo.
Per tutte le volte in cui ci è stato negato.
Diego è morto. Viva Diego.